giovedì 24 dicembre 2009

Le morti "nere": processo al Nordest


Articolo di due mesi fa, ma sempre attuale.
Di Luca Matteazzi


Dalla Calabria al bassanese, due indagini della magistratura
si concentrano sui possibili legami tra lavoro in fabbrica e decessi di operai



Due storie lontane centinaia di chilometri, eppure unite da una sottile linea nera. Nera come il colore della morte. Perché quello che accomuna Praia a Mare, piccolo paese affacciato sul mare di Calabria, e Tezze sul Brenta, sono due indagini sulle storie di operai che sarebbero morti a causa delle condizioni in cui erano costretti a lavorare. Due esempi di "miracolo industriale" che si trasforma, nel silenzio e nell'indifferenza generali, in incubo. Il primo è il caso della fabbrica calabrese della Marlane, che a fine settembre ha portato ad una serie di avvisi di reato per omicidio colposo e disastro ambientale per quattordici persone; il secondo è quello della ex Tricom Galvanica di Tezze, da anni al centro di indagini per l'inquinamento delle falde acquifere e per i decessi di alcuni lavoratori. In tutti e due i casi ci sono di mezzo veleni, tumori e complicati percorsi giudiziari. E in tutti e due i casi c'è qualcosa di vicentino.



Marlane, Calabria
Ma andiamo con ordine. La Marlane è tornata ad occupare le cronache, anche nazionali, in queste settimane (ne ha parlato, ad esempio, La Repubblica), in seguito alla conclusione delle indagini e alla richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Paola, in provincia di Cosenza. Ma la storia parte da ben più lontano. La fabbrica, infatti, viene creata negli anni 50 come Lanificio di Maratea dall'industriale biellese Stefano Rivetti, e lavorava soprattutto per forniture militari. Nel 1969 lo stabilimento viene ceduto al gruppo Eni-Lanerossi, che apporta alcune modifiche fondamentali: da un lato introduce i primi sistemi per il trattamento dei fanghi e per l'ossigenazione dei reflui, dall'altro abbatte però tutte le pareti divisorie, creando un unico ambiente di lavoro. Il risultato fu che i fumi delle sostanze utilizzate nel reparto tintoria poterono così diffondersi anche agli altri settori.





Il racconto
"Dal 1959 al 1963 le misure di sicurezza all'interno delle fabbriche non si conoscevano proprio però Maratea aveva solo la tessitura e l'incollaggio e non aveva altri tipi di lavorazione nocive - ha raccontato al sito internet Sciroccorosso Luigi Pacchiano, un ex dipendente Marlane a cui i tribunali hanno riconosciuto l'origine professionale del tumore che l'ha colpito -. Dal 1963 al 1966 sono uscito per motivi personali dalla fabbrica. Nel 1966 sono rientrato e nel 1969 fummo trasferiti a Praia a mare. Che si chiamava Marlane. Qui c'era la filatura, la tintoria , il fine saggio. Quando siamo arrivati noi la fabbrica è stata cambiata totalmente. Arrivando noi hanno smantellato tutti i muri divisori che prima dividevano i vari reparti e tra questi la tintoria che nella metà degli anni 60 era divisa dagli altri reparti. E così la Marlane di Praia a Mare diventò un unico ambiente. La tessitura e l'orditura che arrivarono dalla fabbrica di Maratea vennero inserite fra la filatura e la tintoria e il fine saggio senza alcuna divisione. Io facevo l'orditore, cioè quelli che preparano l'ordito per la tessitura. E lavoravo a due tre metri di distanza dalle macchine della tintoria. Senza , come dicevo prima senza misura di prevenzione né di protezione. In questa situazione vi ho lavorato fino all'11 novembre del 1995. per questioni di salute sono dovuto uscire dalla fabbrica".
Sotto accusa ci sono sostanze come le ammine aromatiche, ma anche l'amianto, che secondo alcuni lavoratori era usato nell'impianto frenante dei telai (versione sempre contrastata dall'azienda). Fatto sta che, dagli anni '70 in poi, si calcola che alcune decine di operai (a seconda delle stime si oscilla tra i quaranta e i centocinquanta decessi) si siano ammalati, e poi siano deceduti, a causa di tumori alla vescica, ai polmoni, all'utero. Tumori che, è questa l'accusa, sarebbero stati provocati proprio dalle sostanze con cui si entrava in contatto in fabbrica, senza adeguate misure di prevenzione. Inoltre, lo stabilimento di Praia a Mare sarebbe anche l'origine di un colossale inquinamento della zona circostante.



Le indagini
Le prime indagini sono partite nel 1999. Intanto la Marlane aveva cambiato nuovamente proprietà ed era entrato nella galassia del gruppo Marzotto, che aveva acquistato la Lanerossi dall'Eni nel 1987. Per questo, tra gli indagati, oltre al sindaco di Praia a Mare Carlo Lomonaco (che era stato per quindici anni responsabile della tintoria a cavallo tra anni '70 e anni '80) e ad alcuni responsabili locali dello stabilimento, ci sono oggi anche alcuni dei vertici Marzotto degli ultimi quindici anni (Lorenzo Bosetti, Antonio Favrin, Jean De Jeagher, Silvano Storer e Pietro Marzotto). Da parte sua, il gruppo di Valdagno ha sempre sostenuto che, da quando è entrata in possesso della fabbrica, ha effettuato tutti gli investimenti necessari per migliorare la sicurezza delle condizioni di lavoro. Se ci anche ci fossero delle responsabilità, questa andrebbero cercate nelle gestioni precedenti. Toccherà ora al processo stabilire come sono andate le cose.



Tezze
La storia di Tezze sul Brenta e del caso Tricom Galvanica è più vicina, nello spazio e anche nel tempo. La fabbrica, realizzata dalla Junior costruzioni metalliche, nasce infatti nei primissimi anni '70, in origine come "semplice" azienda metalmeccanica. Già nel 1973, però, la ditta ottiene l'autorizzazione per costruire, in un nuovo appezzamento di terreno adiacente al nucleo di partenza, un impianto galvanico per la cromatura dei suoi prodotti, impegnandosi a rispettare precisi requisiti per la salvaguardia dell'ambiente e della salute (tra le altre cose, si assicurava la presenza dell'impianto di depurazione e il contenimento degli scarichi di cromo esavalente). Buone intenzioni che sono rimaste sulla carta. Perché gli impegni, come ha appurato la magistratura negli anni seguenti, non sono stati rispettati: i reflui della lavorazione che uscivano dalle vasche di depurazione, ad esempio, venivano scaricati nella roggia Brotta, un piccolo corso d'acqua che passava fuori dall'azienda e che correva a fianco della strada. "In sintesi - si legge nella sentenza emanata nel 2006 dal tribunale di Padova, sezione di Cittadella - in roggia Brotta sono confluiti dapprima i reflui produttivi della zona (per circa dodici anni quelli della Cromatura Zampierin - Tricom), poi le acque piovane di dilavamento dei medesimi insediamenti produttivi".



Acque sporche
Non ci volle molto per capire che qualcosa, da quelle parti, non andava. Le prime comunicazioni giudiziarie per l'inquinamento dell'acqua sono del 1977; nel 1979 la Provincia revoca alla Tricom l'autorizzazione per continuare con gli scarichi industriali, ma il Comune di Tezze, guidato all'epoca da Rocco Battistella (che al di fuori della vita politica era dipendente proprio della Tricom) concede due autorizzazioni provvisorie, e in ogni caso gli scarichi continuano anche dopo, come raccontato in un verbale dei Nas di Padova del febbraio del 1981. Per tutti gli anni '80 continuano le segnalazioni di inquinamento da cromo esavalente nell'acqua dei pozzi nei comuni a sud di Tezze come Fontaniva e Cittadella. Ma il caso riesplode solo nel 2001, quando a Cittadella si trova acqua contaminata da cromo in due pozzi e il Comune ne vieta l'utilizzo a parte della cittadinanza. Partono nuovi esposti, nuove denunce e nuove indagini, che sfociano in un processo avviato nel 2003 e conclusosi nel 2006 con una sentenza di condanna a due anni e sei mesi per avvelenamento colposo per Paolo Zampierin, il proprietario della Galvanica Pm (ex Tricom), condanna poi "condonata" dall'indulto.



La sentenza
"Anni di indagini ed infine la perizia collegiale Cozzupoli, Vergnano, Sironi - si legge sempre enlla sentenza del tribunale padovano - hanno validato l'ipotesi dell'accusa che di seguito si anticipa sinteticamente .La causa della contaminazione è stata individuata all'interno del perimetro aziendale della INDUSTRIA GALVANICA PM; il focal point si trova nel sottosuolo e nella falda sottostante tale perimetro. Il focal point è "un'enorme pastiglia" di Cr 6+ ed altri metalli pesanti (soprattutto nichel e Cr 3+) formatasi sotto l'insediamento produttivo da ultimo denominato Industria Galvanica PM, nella zona industriale di Tezze sul Brenta. Le dimensioni della "pastiglia" sono state concretamente definite solo nel 2005: è un tronco di cono di matrice ghiaiosa e sabbiosa, con la base minore rivolta verso l'alto, la cui altezza raggiunge i 22- 25 metri. [....] Questa è la spiegazione dei rilevamenti di Cr 6+ nella acque attinte da pozzi privati nei comuni di Cittadella, Fontaniva, Tezze sul Brenta".



Impianti colabrodo
E ancora, più avanti. "Venivano rilevate vistose carenze impiantistiche e comportamentali. Ad esempio, in molti casi i collegamenti tra le vasche di produzione e la rete di evacuazione delle acque da trattare verso l'impianto di depurazione erano tubazioni mobili "di tipo volante", come tali suscettibili di utilizzazione anche per NON passare attraverso il sistema di trattamento; le canalette di evacuazione in cemento non potevano accogliere reflui acidi senza corrodersi lasciando percolare soluzioni di Cr 6+ nel sottosuolo, come la verifica a impianti fermi e vasche evacuate ha confermato dapprima visivamente (sino a marzo 2004) e poi con gli esiti analitici dei carotaggi eseguiti nei punti in cui la compromissione della capacità di tenuta del substrato era visibile; v'erano una diffusa scarsa manutenzione degli impianti ed una diffusa compromissione strutturale del materiale di contenimento: le vasche (si constaterà nel 2004) "avevano un po' di buchi tappati" (pg. 140), pur apparendo visivamente a tenuta. Ancora, il sistema di captazione delle polveri emesse dalla molatura finale dei pezzi (c.d. "sistema a ciclone") era molto poco efficiente e le polveri, perciò, uscivano tramite fessurazioni in atmosfera (e tramite l'acqua piovana potevano essere uno dei possibili veicoli verso la linea di evacuazione delle acque piovane); infine lo stoccaggio di materie prime, anche tra loro incompatibili, avveniva in disordine entro il reparto produttivo".



I tumori
Il risultato è quello che oggi anche le istituzioni definiscono ormai come uno dei casi di inquinamento da cromo esavalente più rilevanti in Europa. Ma l'inquinamento delle falde acquifere è solo un aspetto della vicenda. Sempre nel 2001 sono partite anche le prime denunce da parte di parenti di persone che avevano lavorato all'interno della Tricom Galvanica e che erano morte per tumore ai polmoni, una malattia che può essere causata dall'esposizione a metalli pesanti come appunto il cromo e il nichel. L'ipotesi è che quegli operai (si parla di una quindicina di casi) si siano ammalati proprio a causa delle condizioni di lavoro all'interno della fabbrica, che sarebbero state prive delle più elementari norme di sicurezza. Secondo alcuni studi effettuati dall'Ulss 3 di Bassano, l'incidenza di questo tipo di tumori tra gli ex operai sarebbe almeno tre volte più elevata della media nazionale. Su questo sta indagando la procura di Bassano, che dal 2006 ha aperto un fascicolo di indagine per omicidio colposo plurimo, lesioni gravi, omissioni di difese e cautele contro disastri e infortuni sul lavoro e violazione delle norme per la sicurezza sul lavoro. Quattro gli indagati: Adriano Sgarbossa, Paolo Zampierin, Adriano Zampierin (tutti e tre avevano incarichi di rappresentanti e responsabili dello stabilimento) e Rocco Battistella.



No archiviazione
Nel gennaio del 2008 il pubblico ministero ha chiesto l'archiviazione del caso. Contro questa ipotesi si sono però battute le parti civili, guidate dal Comitato per la salute di Tezze sul brenta - un gruppo di cittadini che da anni segnala il problema e si batte perché venga fatta chiarezza sia sull'inquinamento, sia sulle cause dei decessi - che ha presentato delle nuove perizie. Lo stesso scenario si è ripetuto anche nel 2009, di fronte ad una seconda richiesta di archiviazione. Con successo, perché nel luglio di quest'anno il giudice per le indagini preliminari ha sostanzialmente sconfessato le perizie utilizzate fino a quel momento dalla procura(secondo cui, in sostanze, le morti erano riconducibili al vizio del fumo) ritenendole "superficiali, sbrigative e incoerenti" e ordinato nuove indagini. Il caso, insomma, è ancora aperto. "Quello che chiediamo noi - spiega Emanuele Bonin, uno degli esponenti del comitato -, è solo una cosa: giustizia per i morti. E acqua pulita per chi è rimasto: episodi del genere non devono più accadere, e questo processo può costituire un precedente importante".
Andare avanti, però non è facile. Un po' perché il movimento non ha mai trovato una sponda nella politica, se non in modo saltuario e sporadico (la leghista Mara Bizzotto aveva presentato un'interrogazione nel 2003 ed è tornata sul caso anche recentemente, l'anno scorso si erano mossi alcuni parlamentari dell'Italia dei Valori; ma tutto si è fermato lì). Un pò perché, anche da parte della stessa cittadinanza, l'atteggiamento prevalente è l'indifferenza, quando non il distacco. All'ultimo incontro con i familiari delle vittime, convocato dal Comitato in proprio vista del proseguimento delle indagini, si è presentata una sola delle persone coinvolte. "Una volta c'era il timore di perdere il lavoro - spiega Bonin -. Adesso è come se certi traumi fossero ormai metabolizzati, e non se ne volesse più parlare".



La testimonianza
Così il tutto viene portato avanti da quei pochi che hanno accettato di esporsi. Come Silvio Bonan, che nel libro Morti Bianche scritto da Samanta Persio raccontava così la vicenda di suo padre: "Mio padre ha lavorato quasi trent'anni presso la Tricom, nel reparto di cromatura. Prima di lui sono deceduti altri colleghi, una ventina. Avevano cominciato tutti allo stesso modo, un po' di tosse, sangue dal naso. Ma mio padre pensava di salvarsi in tempo. Non faceva altro che ripetere: "Non vedo l'ora di andare in pensione!". Era convinto che andando via da quel posto sarebbe stato salvo. Però le cose sono andate diversamente..... Ho iniziato a raccogliere testimonianze di colleghi operai, a chiedere analisi ed è iniziata una causa dove la mia famiglia si è costituita parte civile. Ho fatto diversi sopralluoghi. Mi sono reso conto che i reparti non erano separati tra di loro: in un unico stanzone c'era il reparto di imballaggio, di cromatura, di verniciatura, di pulitura, ecc. Chiunque poteva ammalarsi, nessuno utilizzava guanti, mascherine, non c'erano sistemi di protezione....Oltre al cromo esavalente e al nichel sono stati trovati ben sette tipi di cianuro, piombo, soda, e composti, acido cianurico....Dalle vasche, dove avveniva la cromatura, saliva una nebbia persistente. L'intera area lavorativa era un bagno di cromo esavalente, l'operaio camminava in una fanghiglia, il pavimento in cemento era stato corroso e i veleni sono filtrati nel terreno inquinando persino le falde acquifere....Oggi la mia famiglia, insieme a poche altre, porta avanti questa battaglia per veder riconosciuto il danno ai nostri cari. Purtroppo non riceviamo molta solidarietà, né dall'opinione pubblica, né dai giudici che vogliono archiviare il nostro caso".
Rispetto a quando rilasciava queste parole la partita sembra essersi riaperta. E anche i giudici sembrano più intenzionati a fare chiarezza.

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