mercoledì 30 dicembre 2009

WWF: IL 2009 ANNO NERO DA DIMENTICARE


SIAMO MESSI MALE

Roma, 30 DIC (Velino) - Il 2009 per il WWF verra' ricordato in Italia come un anno critico per l'ambiente, dalla pioggia di cemento attraverso i piani
casa alle continue alluvioni e frane, dal rilancio del nucleare a quello di infrastrutture imponenti e discutibili come il Ponte sullo Stretto, dalle
vicende delle navi dei veleni ai tentativi di deregulation sulla caccia.
Il Belpaese ha poi mostrato in maniera particolare tutta la sua fragilita' ambientale, aggravata anche dai sempre piu' violenti effetti dei mutamenti
climatici, e una sofferenza cronica rispetto a gravi problemi di inquinamento che si trascina dal passato e che scelte pericolose come il nucleare
rischiano di aggravare ulteriormente. E la 'cartina tornasole' sulle scelte di politica ambientala, ovvero, la Finanziaria 2010, mette a nudo
l'assenza di strategia e finanziamenti su questo fronte lasciando cosi' l'ambiente a 'tasche vuote' nonostante gli impegni proclamati in ambito
internazionale, dal clima alla biodiversita'.
Gia' a meta' anno la denuncia del WWF era stata lanciata dopo aver assistito ad un vero e proprio boom edificatorio in moltissime citta' (clamoroso
l'esempio di Roma) e alla luce dei cosiddetti Piani Casa, approvati in modo autonomo da tutte le Regioni e che hanno dato vita ad una normativa
disomogenea che e' andata ben oltre gli ampliamenti delle abitazioni uni e bifamiliari.
Addirittura nel caso della Sardegna il Piano Casa regionale ha interferito in modo pesante con tutti i vincoli posti dalla pianificazione
paesaggistica. Interventi di questo tipo mostrano tutta la loro assurdita' se si pensa a quello che e' accaduto nel 2009: dal terremoto dell'Aquila
all'alluvione con frana in provincia di Messina e poi piu' recentemente anche ad Ischia ed in Toscana in Garfagnana e Versilia. In questa Italia a
rischio, ormai molto ben conosciuta, non solo tardano gli interventi di messa in sicurezza ma mancano tutte le azioni preventive serie, oltre che
repressive, che frenino altre infrastrutturazioni in aree sensibili per le caratteristiche sismiche o idrogeologiche.
Il 2009 - scrive il WWF tracciando il bilancio per l'anno che si sta per chiudere - verra' sicuramente ricordato per il rilancio del nucleare, una
'virata' di 180 gradi nelle politiche che riguardano l'ambiente forse ancora poco percepita, per la gravita' degli effetti e l'assurdita' degli
investimenti, dalla grande opinione pubblica.
Mancano ancora alcuni mesi per la decisione definitiva sulla localizzazione dei siti delle nuove centrali e del centro nazionale di stoccaggio dei
rifiuti radioattivi e com'e' noto si aspettano le elezioni regionali per timore di possibili ripercussioni sul voto, ma la scelta nucleare e' stata
ormai decisa dal Parlamento alla fine di luglio. Ben 10 Regioni, ritenendosi giustamente escluse dal processo decisionale, hanno ricorso in Corte
Costituzionale che si pronuncera' nel 2010. A quel punto la questione iniziera' ad essere percepita come concreta ed imminente e si apriranno nuovi
confronti che inevitabilmente coinvolgeranno in modo piu' diretto le popolazioni delle zone prescelte per i nuovi impianti.
C'e' ancora una significativa discrepanza tra le dichiarazioni di principio che, soprattutto a livello internazionale, il Governo assume e
l'attuazione delle politiche ambientali in Italia, annota ancora il Wwf. Buoni e in larga misura condivisibili sono stati i documenti conclusivi del
G8 Ambiente di Siracusa (in aprile), e del G8 dell'Aquila (a luglio), ma ben poco di tutto cio' si e' visto nel pratico. Ma i segnali che in generale
la politica italiana sta dando vanno nella direzione opposta. La cartina tornasole sulla 'sensibilita' ambientale delle politiche nazionali e' proprio
la Legge Finanziaria approvata in Parlamento che traghetta l'Italia verso il 2010.
Si inizia l' anno internazionale della biodiversita' come dichiarato dall'UICN senza stanziamenti adeguati: il nostro paese, che detiene molti
primati in termini di ricchezza di specie e habitat, non destina nemmeno un centesimo di euro per la definizione e attuazione della Strategia
Nazionale a tutela della biodiversita', nonostante le scadenze internazionali (Countdown 2010) e i solenni impegni assunti con la Carta di Siracusa, a
conclusione del G8 Ambiente.
E nell'Anno del Clima, a pochi giorni dalla conclusione del vertice di Copenaghen dove il tema dell'aiuto allo sviluppo e' stato centrale, suona
stridente la conferma del taglio, gia' operato con la Legge Finanziaria 2009, del 49%, dei fondi destinati con la Legge Finanziaria 2008 all'aiuto
pubblico in favore dei Paesi in via di sviluppo. Ci si e' dimenticati poi degli impegni assunti dall'Italia sui cambiamenti climatici assunti sempre
in sede G8 in attuazione del Protocollo di Kyoto visto che non e' previsto alcun fondo (la Legge Finanziaria 2007 destinava 200 milioni di euro al
Fondo rotativo per Kyoto) e non e' stato individuato alcuno strumento per la riduzione delle emissioni di Co2. Come se non bastasse, in campo
energetico sono stati tagliati i 50 milioni di euro destinati complessivamente al Fondo sull'efficienza energetica (38,624 mln, nel 2009) e agli
incentivi per il risparmio energetico (11,587 mln di euro, nel 2009) e non c'e' traccia della copertura della detrazione di imposta del 55% per
interventi di riqualificazione energetica degli edifici esistenti.
Nonostante le sacrosante proteste del Ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, nel 2010 diminuiranno nel loro complesso le risorse per
l'ambiente: circa 276 milioni di euro (tra Legge Finanziaria e Bilancio 2010), spiccioli se si considera che stiamo parlando di difesa mare, difesa
suolo e bonifiche, aree protette, ISPRA e CITES, Convenzione internazionale sul commercio delle specie protette.
Il rischio e' anche quello di una significativa diminuzione dei controlli ambientali per mancanza di risorse visto che a ISPRA, nella quale sono
confluiti anche ICRAM (l'Istituto di ricerca sul mare) e INFS, (l'Istituto nazionale per la fauna selvatica) si destinano nel 2010 solo 86 milioni di
euro quando alla sola APAT lo scorso anno, la Legge Finanziaria 2009 destinava 90 milioni di euro.
Il Governo - scrive il Wwf - insiste sull'impostazione delle grandi opere strategiche destinando oltre 1 miliardo e 564 milioni circa di euro alle
infrastrutture strategiche (autostrade e linee ad alta velocita' ferroviaria) a fronte di fondi 15 volte inferiori destinati alla mobilita' urbana
(solo 120 milioni di euro).
Dunque i disastri continuano a non insegnare nulla visto che non si hanno notizie della piu' grande e importante opera pubblica del Paese, ovvero, la
sistemazione del dissesto idrogeologico ancora senza finanziamenti adeguati e senza un piano pluriennale d'interventi.
Il 2009 sara' ricordato anche per il disastro ferroviario di Viareggio e anche per questo appare clamoroso il fatto che non ci siano risorse ne' per
la sicurezza ferroviaria ne' per quella stradale. Eppure, per rimarcare la scelta delle Grandi Opere strategiche per il Paese si e' arrivati persino
al tentativo di far passare la variante ferroviaria di Cannitello a Reggio Calabria, opera da tempo aspettata e richiesta per migliorare il traffico
ferroviario e come tale approvata, quale avvio della costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina; restano ancora le follie dell'Autostrada della
Maremma la cui scelleratezza economica ed ambientale e' chiarissima e l'Alta Velocita'.
Il 2009 - sottolinea il Wwf - verra' ricordato anche per il tema delle navi dei veleni: nonostante le notizie fossero da anni circolate anche in
ambito parlamentare e fossero oggetto d'indagine da parte di diverse Procure, quest'anno il tema ha suscitato grandissima attenzione. Nonostante il
gran clamore mediatico suscitato, il tema sembra essere precipitato di nuovo nel silenzio come se le rassicurazioni date per il carico della nave
inabissata a largo di Cetraro possano estendersi alle altre decine di navi del cui affondamento doloso si ormai certi.
Infine, se il 2009 e' stato l'anno del clima, il 2010 sara' l'anno internazionale della biodiversita' e, oltre al gia' citato mancato finanziamento
per attuare la Convenzione internazionale sulla biodiversita' , il WWF segnala continui tentativi di modificare, peggiorandole, le leggi italiane
sulla tutela della natura e della fauna selvatica, come ad esempio la Legge quadro sulla caccia. Nel corso del 2009 infatti sono stati numerosi i
tentativi di approvare pessime modifiche, con la tecnica degli emendamenti "blitz" presentati in disegni di legge in discussione aventi ad oggetto
materie del tutto diverse.
Grazie alla mobilitazione tempestiva del WWF e delle altre associazioni queste modifiche sono state respinte. Non abbiamo, invece, registrato nel
corso dell'anno alcun segnale in positivo per la tutela della fauna, dei parchi, degli habitat naturali, del mare, che sarebbero invece assolutamente
necessari in un Paese che divora ogni anno una percentuale preoccupante del patrimonio di biodiversita' e di territorio.

martedì 29 dicembre 2009

CROMO E TUMORI , IN TRE A PROCESSO


Articolo del Giornale di Vicenza sulle ultime novità del caso Tricom di Tezze

Svolta nell’inchiesta sulla Tricom-Pm Galvanica di Tezze. Per tre dei quattro indagati, accusati di omicidio colposo plurimo, lesioni gravi e l’inosservanza delle norme per la sicurezza sul lavoro, è stata disposta dal gip Barbara Maria Trenti l’imputazione coatta. Il provvedimento è stato emesso nei giorni scorsi e adesso il pubblico ministero Giovanni Parolin dovrà stilare il capo d’imputazione e chiedere il rinvio a giudizio. I tre sono Rocco Battistella, Paolo Zampierin e Adriano Sgarbossa. Esce di scena invece il quarto indagato, Angelo Zampierin, perchè i dati formali delle ditte galvaniche escludono che avesse mai avuto compiti decisionali nel reparto cromatura: per lui si profila l’archiviazione per non aver commesso il fatto. L’accurata analisi svolta dal giudice nelle ultime settimane, dopo l’ennesima istanza di archiviazione avanzata dalla procura, ha portato inoltre all’archiviazione di otto delle 14 parti offese, in alcuni casi perchè è intervenuta la prescrizione e in altri perchè non è emersa alcuna relazione tra le patologie che hanno colpito gli ex lavoratori e l’esposizione al cromo esavalente. Il giudice, con l’ordinanza che dispone l’imputazione coatta, rileva come la complessa indagine effettuata dalla sezione di polizia giudiziaria del corpo forestale dello Stato, guidata dall’ispettore superiore Alberto Spoladori, abbia portato a rilevare «all’interno del ciclo di lavorazioni galvaniche della Tricom e della Pm la consapevole e ostinata omessa attivazione dei presidi previsti dalla legge ai fini della tutela dell’integrità fisica dei lavoratori». Una perizia, sempre citata dal gip, aveva tra l’altro evidenziato come «i datori di lavoro si fossero limitati ad accorgimenti di tutela insufficienti, e ciò nonostante fossero stati sanzionati dagli Enti di controllo specifici». A questo punto, Rocco Battistella, Paolo Zampierin e Adriano Sgarbossa dovranno difendersi in sede dibattimentale. A loro saranno contestate le vicissitudini di sei ex lavoratori del reparto cromatura, alcuni deceduti e altri affetti da patologie, e delle loro famiglie, che da anni chiedono giustizia. A sostenerli, il Comitato per la salute di Tezze, che si è battuto con sit-in e attività di sensibilizzazione per portare in giudizio gli indagati. Sul processo potrebbero pesare le decisioni del tribunale di Cittadella, che ha condannato Zampierin per il disastro ambientale legato allo sversamento di cromo nella falda, e la recente decisione del giudice civile, che ha assegnato un risarcimento di 800 mila euro alla famiglia Bonan per la perdita di Domenico, morto in seguito a un cancro legato all’esposizione a sostanze dannose.D.M.

AUTOSTRADE DI CONSIGLIERI




Il caso Nel Nord Est proliferano gli amministratori della rete viaria. Per 7.000 chilometri ce ne sono 68. Un esempio negativo della spartizione delle poltrone.


Che pacchia nel Nord-Est. Per 7.000 chilometri di autostrade ci sono 68 consiglieri di amministrazione: una media di 10 chilometri a testa.
La pacchia dura oramai da anni, fiumi di danaro scorrono a vantaggio di amministratori quasi sempre designati in base non a competenze tecniche ma a spartizioni tra gruppi e gruppetti del centrodestra.
Nessuna voglia, men che mai alcun interesse, a ridimensionare questi carrozzoni. Certo, non c'è uniformità. Qualche primato non si nega: nella società che gestisce la Brescia- Padova non ci sono solo 9 consiglieri, ma un collegio sindacale di 7 tra effettivi e supplenti, che manco la Banca d'Italia. E qualche bulimia è bellamente consentita senza che alcuno se ne stupisca: così il record di affollamento di consiglieri per chilometro è saldamente in mano alla Società per azioni Venezia-Padova: in 15 per gestire 23 chilometri di autostrada.
Come dire: poco più di un chilometro e mezzo a testa. Insomma, meno c'è da amministrare e più sono i consiglieri delegati a gestire.
Ma c'è di più e di peggio: nella società che gestisce l'Autobrennero c'è un mega-consiglio d'amministrazione: 24 più il presidente, più i classici 5 sindaci. E questa struttura è considerata ottimale, corretta, rispetto alla precedente, quando non solo i consiglieri erano 29 ma il presidente si era circondato di ben quattro vicepresidenti. Ancora?
L'aveva rivelata, un paio d'anni addietro, una indignata inchiesta del Gazzettino del Nord Est. La Spa che gestisce la Brescia- Padova, pur avendo come soci enti pubblici e società a capitale altrettanto pubblico, vanta partecipazioni in società estere residenti in paradisi fiscali. Come si concilia con il principio di trasparenza della gestione di una impresa pubblica? Non è in contrasto, codesta Spa, con la propria natura di concessionario di un servizio pubblico come quello autostradale, che peraltro si svolge unicamente sul territorio nazionale?
Lo aveva chiesto, allora, un deputato della (ex) Udeur, lo stesso che aveva chiesto lumi sugli spropositati emolumenti pagati agli amministratori dalla Serenissima Spa, società-madre della Brescia-Padova: nessuna risposta dal governo e dal ministro dei Lavori pubblici dell'epoca, Antonio Di Pietro.
Perché un ritratto, pur parziale, dell'allegra gestione autostradale di un solo angolo d'Italia? Perché è un esempio illuminante del mare magnum degli incarichi pubblici, della spartizione del potere ai livelli medio-bassi.
Un'osservazione ai Brunetta (Pubblica amministrazione), ai Matteoli (Infrastrutture e Trasporti), ai Calderoli (Semplificazione normativa): giusto sfoltire i consigli degli enti territoriali, purché siano tutelati i diritti di tutte le minoranze. Ma perché non liberarci di un esercito di peones sistemati nei Cda delle società a capitale pubblico, a partire dalla mangiatoia delle imprese pubbliche che gestiscono - non solo nel Nord Est - le autostrade?

giovedì 24 dicembre 2009

Le morti "nere": processo al Nordest


Articolo di due mesi fa, ma sempre attuale.
Di Luca Matteazzi


Dalla Calabria al bassanese, due indagini della magistratura
si concentrano sui possibili legami tra lavoro in fabbrica e decessi di operai



Due storie lontane centinaia di chilometri, eppure unite da una sottile linea nera. Nera come il colore della morte. Perché quello che accomuna Praia a Mare, piccolo paese affacciato sul mare di Calabria, e Tezze sul Brenta, sono due indagini sulle storie di operai che sarebbero morti a causa delle condizioni in cui erano costretti a lavorare. Due esempi di "miracolo industriale" che si trasforma, nel silenzio e nell'indifferenza generali, in incubo. Il primo è il caso della fabbrica calabrese della Marlane, che a fine settembre ha portato ad una serie di avvisi di reato per omicidio colposo e disastro ambientale per quattordici persone; il secondo è quello della ex Tricom Galvanica di Tezze, da anni al centro di indagini per l'inquinamento delle falde acquifere e per i decessi di alcuni lavoratori. In tutti e due i casi ci sono di mezzo veleni, tumori e complicati percorsi giudiziari. E in tutti e due i casi c'è qualcosa di vicentino.



Marlane, Calabria
Ma andiamo con ordine. La Marlane è tornata ad occupare le cronache, anche nazionali, in queste settimane (ne ha parlato, ad esempio, La Repubblica), in seguito alla conclusione delle indagini e alla richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Paola, in provincia di Cosenza. Ma la storia parte da ben più lontano. La fabbrica, infatti, viene creata negli anni 50 come Lanificio di Maratea dall'industriale biellese Stefano Rivetti, e lavorava soprattutto per forniture militari. Nel 1969 lo stabilimento viene ceduto al gruppo Eni-Lanerossi, che apporta alcune modifiche fondamentali: da un lato introduce i primi sistemi per il trattamento dei fanghi e per l'ossigenazione dei reflui, dall'altro abbatte però tutte le pareti divisorie, creando un unico ambiente di lavoro. Il risultato fu che i fumi delle sostanze utilizzate nel reparto tintoria poterono così diffondersi anche agli altri settori.





Il racconto
"Dal 1959 al 1963 le misure di sicurezza all'interno delle fabbriche non si conoscevano proprio però Maratea aveva solo la tessitura e l'incollaggio e non aveva altri tipi di lavorazione nocive - ha raccontato al sito internet Sciroccorosso Luigi Pacchiano, un ex dipendente Marlane a cui i tribunali hanno riconosciuto l'origine professionale del tumore che l'ha colpito -. Dal 1963 al 1966 sono uscito per motivi personali dalla fabbrica. Nel 1966 sono rientrato e nel 1969 fummo trasferiti a Praia a mare. Che si chiamava Marlane. Qui c'era la filatura, la tintoria , il fine saggio. Quando siamo arrivati noi la fabbrica è stata cambiata totalmente. Arrivando noi hanno smantellato tutti i muri divisori che prima dividevano i vari reparti e tra questi la tintoria che nella metà degli anni 60 era divisa dagli altri reparti. E così la Marlane di Praia a Mare diventò un unico ambiente. La tessitura e l'orditura che arrivarono dalla fabbrica di Maratea vennero inserite fra la filatura e la tintoria e il fine saggio senza alcuna divisione. Io facevo l'orditore, cioè quelli che preparano l'ordito per la tessitura. E lavoravo a due tre metri di distanza dalle macchine della tintoria. Senza , come dicevo prima senza misura di prevenzione né di protezione. In questa situazione vi ho lavorato fino all'11 novembre del 1995. per questioni di salute sono dovuto uscire dalla fabbrica".
Sotto accusa ci sono sostanze come le ammine aromatiche, ma anche l'amianto, che secondo alcuni lavoratori era usato nell'impianto frenante dei telai (versione sempre contrastata dall'azienda). Fatto sta che, dagli anni '70 in poi, si calcola che alcune decine di operai (a seconda delle stime si oscilla tra i quaranta e i centocinquanta decessi) si siano ammalati, e poi siano deceduti, a causa di tumori alla vescica, ai polmoni, all'utero. Tumori che, è questa l'accusa, sarebbero stati provocati proprio dalle sostanze con cui si entrava in contatto in fabbrica, senza adeguate misure di prevenzione. Inoltre, lo stabilimento di Praia a Mare sarebbe anche l'origine di un colossale inquinamento della zona circostante.



Le indagini
Le prime indagini sono partite nel 1999. Intanto la Marlane aveva cambiato nuovamente proprietà ed era entrato nella galassia del gruppo Marzotto, che aveva acquistato la Lanerossi dall'Eni nel 1987. Per questo, tra gli indagati, oltre al sindaco di Praia a Mare Carlo Lomonaco (che era stato per quindici anni responsabile della tintoria a cavallo tra anni '70 e anni '80) e ad alcuni responsabili locali dello stabilimento, ci sono oggi anche alcuni dei vertici Marzotto degli ultimi quindici anni (Lorenzo Bosetti, Antonio Favrin, Jean De Jeagher, Silvano Storer e Pietro Marzotto). Da parte sua, il gruppo di Valdagno ha sempre sostenuto che, da quando è entrata in possesso della fabbrica, ha effettuato tutti gli investimenti necessari per migliorare la sicurezza delle condizioni di lavoro. Se ci anche ci fossero delle responsabilità, questa andrebbero cercate nelle gestioni precedenti. Toccherà ora al processo stabilire come sono andate le cose.



Tezze
La storia di Tezze sul Brenta e del caso Tricom Galvanica è più vicina, nello spazio e anche nel tempo. La fabbrica, realizzata dalla Junior costruzioni metalliche, nasce infatti nei primissimi anni '70, in origine come "semplice" azienda metalmeccanica. Già nel 1973, però, la ditta ottiene l'autorizzazione per costruire, in un nuovo appezzamento di terreno adiacente al nucleo di partenza, un impianto galvanico per la cromatura dei suoi prodotti, impegnandosi a rispettare precisi requisiti per la salvaguardia dell'ambiente e della salute (tra le altre cose, si assicurava la presenza dell'impianto di depurazione e il contenimento degli scarichi di cromo esavalente). Buone intenzioni che sono rimaste sulla carta. Perché gli impegni, come ha appurato la magistratura negli anni seguenti, non sono stati rispettati: i reflui della lavorazione che uscivano dalle vasche di depurazione, ad esempio, venivano scaricati nella roggia Brotta, un piccolo corso d'acqua che passava fuori dall'azienda e che correva a fianco della strada. "In sintesi - si legge nella sentenza emanata nel 2006 dal tribunale di Padova, sezione di Cittadella - in roggia Brotta sono confluiti dapprima i reflui produttivi della zona (per circa dodici anni quelli della Cromatura Zampierin - Tricom), poi le acque piovane di dilavamento dei medesimi insediamenti produttivi".



Acque sporche
Non ci volle molto per capire che qualcosa, da quelle parti, non andava. Le prime comunicazioni giudiziarie per l'inquinamento dell'acqua sono del 1977; nel 1979 la Provincia revoca alla Tricom l'autorizzazione per continuare con gli scarichi industriali, ma il Comune di Tezze, guidato all'epoca da Rocco Battistella (che al di fuori della vita politica era dipendente proprio della Tricom) concede due autorizzazioni provvisorie, e in ogni caso gli scarichi continuano anche dopo, come raccontato in un verbale dei Nas di Padova del febbraio del 1981. Per tutti gli anni '80 continuano le segnalazioni di inquinamento da cromo esavalente nell'acqua dei pozzi nei comuni a sud di Tezze come Fontaniva e Cittadella. Ma il caso riesplode solo nel 2001, quando a Cittadella si trova acqua contaminata da cromo in due pozzi e il Comune ne vieta l'utilizzo a parte della cittadinanza. Partono nuovi esposti, nuove denunce e nuove indagini, che sfociano in un processo avviato nel 2003 e conclusosi nel 2006 con una sentenza di condanna a due anni e sei mesi per avvelenamento colposo per Paolo Zampierin, il proprietario della Galvanica Pm (ex Tricom), condanna poi "condonata" dall'indulto.



La sentenza
"Anni di indagini ed infine la perizia collegiale Cozzupoli, Vergnano, Sironi - si legge sempre enlla sentenza del tribunale padovano - hanno validato l'ipotesi dell'accusa che di seguito si anticipa sinteticamente .La causa della contaminazione è stata individuata all'interno del perimetro aziendale della INDUSTRIA GALVANICA PM; il focal point si trova nel sottosuolo e nella falda sottostante tale perimetro. Il focal point è "un'enorme pastiglia" di Cr 6+ ed altri metalli pesanti (soprattutto nichel e Cr 3+) formatasi sotto l'insediamento produttivo da ultimo denominato Industria Galvanica PM, nella zona industriale di Tezze sul Brenta. Le dimensioni della "pastiglia" sono state concretamente definite solo nel 2005: è un tronco di cono di matrice ghiaiosa e sabbiosa, con la base minore rivolta verso l'alto, la cui altezza raggiunge i 22- 25 metri. [....] Questa è la spiegazione dei rilevamenti di Cr 6+ nella acque attinte da pozzi privati nei comuni di Cittadella, Fontaniva, Tezze sul Brenta".



Impianti colabrodo
E ancora, più avanti. "Venivano rilevate vistose carenze impiantistiche e comportamentali. Ad esempio, in molti casi i collegamenti tra le vasche di produzione e la rete di evacuazione delle acque da trattare verso l'impianto di depurazione erano tubazioni mobili "di tipo volante", come tali suscettibili di utilizzazione anche per NON passare attraverso il sistema di trattamento; le canalette di evacuazione in cemento non potevano accogliere reflui acidi senza corrodersi lasciando percolare soluzioni di Cr 6+ nel sottosuolo, come la verifica a impianti fermi e vasche evacuate ha confermato dapprima visivamente (sino a marzo 2004) e poi con gli esiti analitici dei carotaggi eseguiti nei punti in cui la compromissione della capacità di tenuta del substrato era visibile; v'erano una diffusa scarsa manutenzione degli impianti ed una diffusa compromissione strutturale del materiale di contenimento: le vasche (si constaterà nel 2004) "avevano un po' di buchi tappati" (pg. 140), pur apparendo visivamente a tenuta. Ancora, il sistema di captazione delle polveri emesse dalla molatura finale dei pezzi (c.d. "sistema a ciclone") era molto poco efficiente e le polveri, perciò, uscivano tramite fessurazioni in atmosfera (e tramite l'acqua piovana potevano essere uno dei possibili veicoli verso la linea di evacuazione delle acque piovane); infine lo stoccaggio di materie prime, anche tra loro incompatibili, avveniva in disordine entro il reparto produttivo".



I tumori
Il risultato è quello che oggi anche le istituzioni definiscono ormai come uno dei casi di inquinamento da cromo esavalente più rilevanti in Europa. Ma l'inquinamento delle falde acquifere è solo un aspetto della vicenda. Sempre nel 2001 sono partite anche le prime denunce da parte di parenti di persone che avevano lavorato all'interno della Tricom Galvanica e che erano morte per tumore ai polmoni, una malattia che può essere causata dall'esposizione a metalli pesanti come appunto il cromo e il nichel. L'ipotesi è che quegli operai (si parla di una quindicina di casi) si siano ammalati proprio a causa delle condizioni di lavoro all'interno della fabbrica, che sarebbero state prive delle più elementari norme di sicurezza. Secondo alcuni studi effettuati dall'Ulss 3 di Bassano, l'incidenza di questo tipo di tumori tra gli ex operai sarebbe almeno tre volte più elevata della media nazionale. Su questo sta indagando la procura di Bassano, che dal 2006 ha aperto un fascicolo di indagine per omicidio colposo plurimo, lesioni gravi, omissioni di difese e cautele contro disastri e infortuni sul lavoro e violazione delle norme per la sicurezza sul lavoro. Quattro gli indagati: Adriano Sgarbossa, Paolo Zampierin, Adriano Zampierin (tutti e tre avevano incarichi di rappresentanti e responsabili dello stabilimento) e Rocco Battistella.



No archiviazione
Nel gennaio del 2008 il pubblico ministero ha chiesto l'archiviazione del caso. Contro questa ipotesi si sono però battute le parti civili, guidate dal Comitato per la salute di Tezze sul brenta - un gruppo di cittadini che da anni segnala il problema e si batte perché venga fatta chiarezza sia sull'inquinamento, sia sulle cause dei decessi - che ha presentato delle nuove perizie. Lo stesso scenario si è ripetuto anche nel 2009, di fronte ad una seconda richiesta di archiviazione. Con successo, perché nel luglio di quest'anno il giudice per le indagini preliminari ha sostanzialmente sconfessato le perizie utilizzate fino a quel momento dalla procura(secondo cui, in sostanze, le morti erano riconducibili al vizio del fumo) ritenendole "superficiali, sbrigative e incoerenti" e ordinato nuove indagini. Il caso, insomma, è ancora aperto. "Quello che chiediamo noi - spiega Emanuele Bonin, uno degli esponenti del comitato -, è solo una cosa: giustizia per i morti. E acqua pulita per chi è rimasto: episodi del genere non devono più accadere, e questo processo può costituire un precedente importante".
Andare avanti, però non è facile. Un po' perché il movimento non ha mai trovato una sponda nella politica, se non in modo saltuario e sporadico (la leghista Mara Bizzotto aveva presentato un'interrogazione nel 2003 ed è tornata sul caso anche recentemente, l'anno scorso si erano mossi alcuni parlamentari dell'Italia dei Valori; ma tutto si è fermato lì). Un pò perché, anche da parte della stessa cittadinanza, l'atteggiamento prevalente è l'indifferenza, quando non il distacco. All'ultimo incontro con i familiari delle vittime, convocato dal Comitato in proprio vista del proseguimento delle indagini, si è presentata una sola delle persone coinvolte. "Una volta c'era il timore di perdere il lavoro - spiega Bonin -. Adesso è come se certi traumi fossero ormai metabolizzati, e non se ne volesse più parlare".



La testimonianza
Così il tutto viene portato avanti da quei pochi che hanno accettato di esporsi. Come Silvio Bonan, che nel libro Morti Bianche scritto da Samanta Persio raccontava così la vicenda di suo padre: "Mio padre ha lavorato quasi trent'anni presso la Tricom, nel reparto di cromatura. Prima di lui sono deceduti altri colleghi, una ventina. Avevano cominciato tutti allo stesso modo, un po' di tosse, sangue dal naso. Ma mio padre pensava di salvarsi in tempo. Non faceva altro che ripetere: "Non vedo l'ora di andare in pensione!". Era convinto che andando via da quel posto sarebbe stato salvo. Però le cose sono andate diversamente..... Ho iniziato a raccogliere testimonianze di colleghi operai, a chiedere analisi ed è iniziata una causa dove la mia famiglia si è costituita parte civile. Ho fatto diversi sopralluoghi. Mi sono reso conto che i reparti non erano separati tra di loro: in un unico stanzone c'era il reparto di imballaggio, di cromatura, di verniciatura, di pulitura, ecc. Chiunque poteva ammalarsi, nessuno utilizzava guanti, mascherine, non c'erano sistemi di protezione....Oltre al cromo esavalente e al nichel sono stati trovati ben sette tipi di cianuro, piombo, soda, e composti, acido cianurico....Dalle vasche, dove avveniva la cromatura, saliva una nebbia persistente. L'intera area lavorativa era un bagno di cromo esavalente, l'operaio camminava in una fanghiglia, il pavimento in cemento era stato corroso e i veleni sono filtrati nel terreno inquinando persino le falde acquifere....Oggi la mia famiglia, insieme a poche altre, porta avanti questa battaglia per veder riconosciuto il danno ai nostri cari. Purtroppo non riceviamo molta solidarietà, né dall'opinione pubblica, né dai giudici che vogliono archiviare il nostro caso".
Rispetto a quando rilasciava queste parole la partita sembra essersi riaperta. E anche i giudici sembrano più intenzionati a fare chiarezza.

giovedì 10 dicembre 2009

PRIMA CENTRALE NUCLEARE AL NORD


Il dossier porta alla Regione Veneto

L’ipotesi di realizzare un sito nell’area del Polesine, vicino a Chioggia

ROMA — «Se potessi scegliere dove mettere una centrale nucleare me la metterei nel giardino di casa». Parola di Claudio Scajola. Peccato che la casa del ministro dello Sviluppo economico si trovi in Liguria, regione che non avrebbe neanche un centimetro quadrato idoneo a ospitare un impianto atomico. Figuriamoci un giardino. Per giunta la Liguria, governata dal centrosinistra, è una delle dieci Regioni che hanno fatto ricorso alla Consulta contro la legge 99 con la quale il governo ha riaperto la strada al nucleare. Una iniziativa che, visti i precedenti, può rappresentare un ostacolo serissimo a tutta l’operazione. Intanto il tempo passa. Ed è sempre più vicina la scadenza del 15 febbraio, data entro cui dovrebbero essere pronti i quattro provvedimenti del governo necessari per poter costruire le nuove centrali. Serve una delibera del Cipe che dirà quali tecnologie si potranno impiegare, e probabilmente saranno ammesse tanto la francese (Epr) che l’americana (Ap 1000). Serve un decreto che dica dove si farà il deposito delle scorie, ed è un problema mica da ridere. Serve un decreto per decidere le compensazioni economiche per gli enti locali che accoglieranno gli impianti. Serve, soprattutto, il decreto sulle localizzazioni: un provvedimento che stabilirà non dove si possono fare, ma dove «non» si possono fare le centrali. Sulla base di questa mappa «al negativo», l’Enel e chi altro vorrà realizzare un impianto avanzerà proposte all’Agenzia per la sicurezza nucleare. Che dovrà dire sì o no.

Soltanto a quel punto si potrà avere l’elenco dei siti. Da mesi circolano tuttavia presunte liste nelle quali figurano i luoghi dove erano già presenti i vecchi impianti. Oppure dove era stata avviata la costruzione di centrali quando, nel 1987, il referendum antinucleare bloccò tutto. Il quotidiano Mf ha rilanciato ieri i nomi di Trino vercellese, Caorso, Montalto di Castro, Latina e Garigliano: quelli di 22 anni fa. E sempre ieri il presidente dei Verdi Angelo Bonelli ha rivelato la dislocazione dei siti a sua conoscenza. Quali sarebbero? Gli stessi, più Oristano, Palma (in Sicilia, Agrigento) e Monfalcone. Località considerate idonee da trent’anni. Risale infatti al 1979 la mappa elaborata dal Cnen sulla base di alcuni parametri come il rischio sismico, la presenza dell’acqua, il tasso di urbanizzazione, l’esistenza di infrastrutture. Parametri che da allora possono essere anche molto cambiati. La portata idrica del Po, per esempio, non è più quella del 1979. Molte aree poco urbanizzate sono oggi iperabitate. E anche la carta del rischio sismico, con il progresso delle tecniche d’indagine, potrebbe riservare tante sorprese. Senza considerare che la scelta dei siti «idonei » non spetta formalmente all’Enel, che può soltanto proporli, ma all’Agenzia per la sicurezza nucleare che ancora dev’essere costituita. Non che qualche idea non ci sia già. Per esempio, un orientamento «politico» di fondo del governo: realizzare al Nord la prima delle quattro centrali previste dal piano. Dove, è difficile dire. Com’è comprensibile, nessuno parla: adducendo come motivazione la circostanza che la mappa del 1979 è in fase di aggiornamento. Ma si sa, per esempio, che l’area non dovrebbe coincidere con quelle che hanno già ospitato un vecchio impianto atomico e questo porterebbe a escludere Caorso e Trino. Se il sito in questione dev’essere poi in prossimità del mare, a causa delle sofferenze del Po, allora la ricerca si restringe. C’è la Toscana settentrionale con l’area di Cecina, città natale del ministro nuclearista Altero Matteoli, ma la regione è governata dal centrosinistra e ha già fatto ricorso contro la legge Scajola: la battaglia sarebbe durissima. Nella mappa dei siti possibili figura anche l’isola di Pianosa, ma oltre ai problemi di cui sopra ci sarebbe la controindicazione del costo esagerato. Minori difficoltà esisterebbero per la costa adriatica, in particolare quella Friuli Venezia Giulia e il delta del Po. Ma se la zona di Monfalcone è abbastanza congestionata, il Polesine, area a una trentina di chilometri da Chioggia, lo è molto meno. Va ricordato che a favore della localizzazione di una centrale atomica in Veneto si era già espresso il governatore Giancarlo Galan (uno dei pochi a non aver fatto ricorso alla Consulta) con riferimento alla conversione a carbone di Porto Tolle. Ovviamente contestato dagli ambientalisti.

Per ora, comunque, restiamo agli indizi. L’Agenzia, che ha potere decisionale, non è ancora nata. Da settimane si attende la nomina dei suoi vertici: per la presidenza sarebbe ora in pole position il settantenne Maurizio Cumo, ex presidente della Sogin. Irrisolta resta anche la questione dei finanziamenti. L’Agenzia dovrebbe avere un centinaio di dipendenti ma non una lira in più delle risorse già esistenti. Un emendamento alla finanziaria che le destinava 3 milioni di euro è stato bocciato in extremis dal Tesoro. E non si sa nemmeno dove avrà sede. Il ligure Scajola preme per Genova, mentre il suo collega veneziano Renato Brunetta, che deve dare il proprio parere, punterebbe Slitta a dopo il voto la scadenza del 15 febbraio per i siti su Venezia.

Per non parlare degli altri problemi politici. Il primo di tutti: le prossime elezioni regionali. Una scadenza troppo importante per non far scivolare a una data successiva la presentazione dei decreti del governo, prevista entro il 15 febbraio. Alla luce di quello che sta accadendo, spiegano al ministero, quel termine dev’essere considerato soltanto «ordinatorio». Se ne parlerà magari in aprile, se non a maggio. E ci sarà anche più tempo per risolvere il problema delle scorie. Se la prima centrale dovrebbe essere fatta al Nord, sembra garantito che il deposito delle scorie sarà al Sud. A quanto pare non più nel sottosuolo, ma in superficie. Contando su una reazione più blanda delle popolazioni coinvolte. Già. Ricordate Scanzano Jonico?

Sergio Rizzo
09 dicembre 2009

articolo tratto da www.corriere.it